E’ morto Umberto Eco.

Perché parlarne fra una borsetta e un abitino di chiffon?

Perché mi sono laureata al DAMS di Bologna, tanti anni fa.
E siccome già all’epoca mi interessava tutto ciò che era giornalismo e mass media, avevo inserito nel mio piano di studi alcuni corsi del Dipartimento di Comunicazioni dove Umberto Eco aveva la Cattedra di Semiotica, e per il quale rappresentava un autentico faro, il riferimento assoluto.

Era il periodo della pubblicazione del romanzo Il pendolo di Foucault.
Un grande successo, proprio come il precedente, Il nome della Rosa.
E proprio come tutto ciò che faceva, diceva, pensava, fondava, criticava, toccava questo esponente così intelligente, profondo e vitale della cultura internazionale.


Per noi studenti della bolgia di Via Guerrazzi 20, Umberto Eco era un mito: da imitare, da dissacrare. In fondo in fondo un po’ ci apparteneva, nonostante fosse così famoso e così importante.


E penso che, in fondo in fondo, nonostante il prestigio, i riconoscimenti, le onorificenze, i premi ricevuti da un pianeta intero che si inchinava davanti alla sua eminenza culturale, Umberto Eco ricambiasse il nostro strambo affetto e traesse parte della sua linfa vitale proprio dalla caotica, sconclusionata immaturità della nostra irriverente “massa studentesca”.

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